Non c’è molto da dire su questo racconto, se non che l’ho scritto dopo aver letto un’antologia di poesie di Verlaine pensando a cosa fosse la sua vita vera -quella di tutti i giorni-, e cosa fossero i suoi sentimenti autentici, cioè non quelli mistificati e perfetti nella loro distruzione di una poesia.
Io non volevo dedicarlo a nessuno, ma poi, si sa: quando uno ama non può farne a meno
“I poeti che brutte creature, ogni volta che parlano è una truffa”
Francesco De Gregori, “Le storie di ieri”
Da sempre, i poeti e gli aedi hanno cercato, con matematica precisione, di spiegare cos’è l’amore e per quale motivo lacera i tessuti e distrugge l’anima: molte spesso non ci riescono, perché loro stessi amano male, e questo è assolutamente controproducente per la loro poesia: se mai nasce qualche verso, è senza dubbio rubato ai sogni.
I poeti non sono capaci di amare: lo sanno tutti. E proprio per esorcizzare ciò: scrivono.
In Francia, terra eterna dell’amor cortese e passionale, viveva, un tempo, un tizio. Un poeta. Si chiamava Paul, ed era un principe nella sua specie. Per tutti, il migliore: i versi gli uscivano dalle mani come sangue dalle ferite.
In Francia, terra eterna dell’amor cortese e passionale, viveva, un tempo, un tizio. Un poeta. Si chiamava Arthur, ed era l’amante di Paul: i suoi occhi erano grandi come un lago africano, e vedevano oltre la realtà.
Si conobbero quasi per caso, come tutti gli amanti, e fu il caso forsennato e cieco a dettare i loro tristi e bastardi destini, a porre i pezzi sulla scacchiera -a farli diventare re e regina- prima di gettarli nel fango dell’Africa, e nell’umido selciato di Francia. Paul era famoso, scriveva belle parole che incantavano i ricchi e i poveri: così famoso, e così bello nella sua aura nobiliare, cinto della sua corona d’alloro, che Arthur venne a conoscerlo indirettamente, proprio tramite le sue poesie. Se mai ci si può innamorare senza vedersi, lui lo fece; se mai ci si può innamorare senza conoscere una persona, lui lo fece. E l’amore diventò passione:
Arthur scrisse innumerevoli lettere all’indirizzo di Paul che sistematicamente leggeva e a cui, con chirurgica precisione -inusitata per un poeta bello e dannato come lui- rispondeva: corrispondenza fitte come tanti soldatini lungo il fronte. Alla fine, una volta gettato fuori tutto l’amore per riempire l’altro, l’altro -che poi sarebbe Paul- lo ributtò indietro perché non ne poteva forse più; si innamorarono, proprio come dicono le canzoni, e Arthur di amore in quelle lettere gliene mise davvero parecchio, così tanto che Paul, un po’ preoccupato dalle a volte deliranti frasi di Arthur, gli scrisse: raggiungimi. E Arthur lo raggiunse.
Si presentò a casa di Paul con una sola valigia, così piccola che poteva contenere solo pochi vestiti, ma legata con uno spago così spesso, e così tarmata dalle avversità, che sembrava intenzionata a non voler saperne più di viaggiare, e insomma Arthur era così sorridente che tutti capirono si sarebbe fermato per sempre.
L’unica a non essere del tutto convinta era Mathilde, la moglie di Paul, che Paul amava senza ritegno. Non c’è cosa più bella e nobile di scrivere una poesia d’amore per la donna che si ama, e Paul, che faceva il poeta, ne aveva scritte tante, di poesie d’amore, magari anche dietro ai tovaglioli, al bar, o su un pezzo di carta trovato per strada -cosa stupida e veloce da perderla subito dopo, che mai si sarebbe ritrovata, parole come bolle che scoppiano nell’aria, invisibili e leggere, come un bacino sulla guancia; gesti minuscoli e calcolati sul filo di una perfezione limpida e sottile, fatta di sorrisi e occhiate: ti amo, e fine: cos’è, di più di questo, l’amore?
Mathilde sin da subito guardò Arthur in cagnesco, come avrebbe potuto guardare una bellissima donna che sorrideva felina a Paul fuori dalla messa, o al mercato. Quella sera stessa prese suo marito in disparte e gli disse:
-Quindi?
Solo così. Pulito. Quindi?
-Quindi cosa?
-Come la mettiamo con questo giovanotto?
-È un poeta. Vede in me una specie di maestro.
-Ti senti obbligato ad aiutarlo?
-Sì, direi di sì, insomma: è una cosa onorevole, per un poeta, o anche per uno scultore, trovare qualcuno disposto a creare una poesia o una statua seguendo le proprie direttive.
-Ho visto le lettere che vi siete scritti. Soprattutto le ultime, quelle le odio. Ho capito da tempo che c’è qualcosa che non va. Lo ami?
-Cos’è l’amore?
-Non capisco cosa vuoi dire…
-Io non so spiegare cos’è l’amore, nessuno lo sa: tentiamo e falliamo ogni volta. Tocca rassegnarsi alla deriva delle nostre passioni, siamo anime nella corrente della vita. L’amore è trovare sé stessi in un’altra persona e capire i propri difetti in quello specchio di occhi, forse, oppure è tutt’altro.
-Sei proprio un poeta… non si capisce mai quello che vuoi dire.
-Io ti amo, Mathilde, questo lo so. Questo mi importa. E nient’altro. Non so cos’è l’amore perché nessuno me lo ha insegnato, ma da sempre ci convivo: il marinaio non conosce la fisica delle tempeste, ma sa dominarle perché le ha viste per tutta la vita.
Finito di parlare subentrò il silenzio, che è la vera parola dell’amore: chi si ama sa sempre cosa dirsi, ma anche sa sempre quando stare in silenzio e respirarsi, e guardarsi piano, assaporando ogni centimetro di pelle e ogni profumo: i silenzi sono così grandi e remoti che dentro ci stanno tutti gli amanti del mondo, comodi e lontani che nessuno li infastidisce. Nel silenzio, Mathilde e Paul si spogliarono, guardandosi nel buio: si stesero nel letto, caddero come alberi abbattuti o viandanti giunti alla locanda dopo ore di viaggio; le mani erano quelle di un cieco che cercano un appiglio sicuro: strisciavano sulla pelle come per levigarla, fino a che scoprirono che millenni d’arte e scultori per rendere il marmo come un panno non erano serviti a nulla, perché la pelle più morbida e sottile era la loro. Le bocche, socchiuse e ansimanti, erano sintomo di un piacere recondito e passionale; gli occhi, chiusi per scoprire col tatto piaceri proibiti, erano appoggiati al collo: denti, e morsi, qualcosa di bagnato. Paul, con estrema gentilezza e grazia, scoprì per l’ennesima volta tutto il corpo di Mathilde, e Mathilde lasciò entrare Paul là dove entrambi sarebbero stati felici.
Sì.
Per sempre.
E fu amore, e orgasmo da poesia.
Tutto il resto è letteratura.
Arthur, intanto, passava le sue giornate nella casa di Paul, leggendo con lui poesie e scrivendo qualcosa: Paul, senza rendersene forse conto, era innamorato di lui come un bambino entusiasta del suo gioco nuovo, ma non poteva accorgersene perché era perso per Mathilde. Questo è il problema dell’amore: non si capisce mai niente.
Trascorrevano le giornate sotto i mandorli del giardino, sorridendo di ogni piccola cosa. A vederli da lontano non si poteva che dire: loro due si amano; ed erano bellissimi, coi loro occhi sereni: nulla poteva andare storto, la vita era tutta una canzone allegra suonata nelle sere d’estate. A vederli da lontano erano la cosa più indistruttibile del mondo: da vicino, invece, erano tutte parole e frecce d’amore.
-Sarebbe bello fuggire insieme.
-Sì,- rispose Paul –ma dovrei lasciare Mathilde. Non posso farlo: io la amo.
-E non ami anche me?
-Immagino proprio di sì, o almeno credo.
-Lo capirai: si capisce sempre, prima o poi.
-Come si fa a capire di essere innamorati?
-Quando non puoi più fare a meno dell’altra persona, vuol dire che lo sei.
-Allora credo proprio di essere innamorato anche di te. Ma ciò è impossibile: come posso amare due persone contemporaneamente?
-A volte non si riesce a fare a meno di due persone, e allora è un gran bel casino.
-Stai dicendo che nella mia vita non riesco a cavarmela da solo, che ho bisogno di aiuto?
-Tu hai le poesie: sono un’àncora.
-Capisco…
-Allora, fuggirai con me?
-Pensi che riuscirei a fare a meno di Mathilde?
-Dipende.
Paul, che amava Mathilde, capì che non poteva. Però la lasciò lo stesso, e fuggì con Arthur.
A capirli, gli innamorati.
Mathilde, dal canto suo, si rese conto di ciò quando suo marito era già lontano, chissà dove. Lo amava, ma questo non bastò a perdonarlo: a volte capita, che l’amore non vinca su tutto. Soprattutto se tradito.
Paul e Arthur viaggiarono in lungo e in largo, videro tante cose e scrissero. Paul fece ciò pensando a sua moglie, e a cosa stesse facendo o pensando, che ancora l’amava con tutto sé stesso, di questo ne era certo, e forse tutto quanto era solo l’ebbrezza di scoprire cosa accadeva con Arthur, che era molto più giovane di lui, perché questo l’aiutava a sentirsi più giovane a propria volta; così dovette pensarla Paul: era il brivido dell’avventura. Questo, comunque, non servì per non pensare a Mathilde: per lei scrisse una bellissima poesia che non parlava assolutamente di lei, certo, ma che celava comunque tutto l’amore e il dolore per la separazione, e la separazione stessa. E Mathilde stessa. Mentre la scriveva: pianse.
Come tutte le storie d’amore, però, anche la ballata di Paul e Arthur volse al termine perché, e qui c’è la beffa, che sia colpa della morte o della vita, gli amori prima o poi finiscono tutti: Paul, forse talmente confuso da non capirci più niente, sparò ad Arthur. Accadde perché avevano condiviso tante cose, tante belle parole, ed erano talmente ubriachi di poesia e d’amore che ad un certo punto Paul non resse più. Mathilde, per esempio, l’aveva rivista in altre occasioni, tempo dopo la prima fuga, e con Arthur stette del tempo senza vedersi -mesi-, e l’amore oscillava fra l’inferno e il paradiso come sempre: dopo tanti alti e bassi l’equilibrio sembrò giunto con Mathilde che se ne andò per sempre e con Paul che prese la ferma decisione di passare il resto dei suoi giorni con Arthur; peccato che, siccome la realtà non è il mondo dei sogni -anche se sarebbe bello lo fosse- le apparenze ingannano, e così Paul non passò tutto il resto della sua vita con Arthur, come aveva appunto preventivato, ma anzi gli sparò: due colpi. E furono così forti e crudeli che segnarono la fine di tutto quel che erano, se mai qualcosa fossero stati.
Arthur morì da solo, vicino al mare, dopo averlo attraversato una volta per andare a vivere altrove e un’altra volta al contrario per tornare a casa e morirci, nonostante la odiasse, la sua Francia.
Amò per sempre Paul.
Paul divenne un uomo solo, invece: senza Mathilde, senza Arthur, senza amore. Cosa rimane, alla fine, ad un uomo? Forse la rabbia, la frustrazione, l’odio, la vendetta, la sconfitta eterna, la rassegnazione. La speranza: una stella. I marinai navigano e navigano, fra le nebbie e sulle onde, col cielo coperto e nuvoloso, e poi la vedono: una stella. La speranza. E l’uomo che ama e ama e ama sa che dentro al suo cuore brucia una speranza, e il suo cuore sta male e piange e sanguina e se non muore prima muore allora bruciato dalla speranza. E non c’è nulla da fare. Cosa rimane, alla fine, ad un uomo?
Niente.
A meno che non si sia Paul, che divenne insegnante forse per proteggersi dal mondo, per costruirsi una corazza contro ogni avversità, contro ogni piccolo dolore. E galeotto fu l’insegnamento: Paul conobbe un ragazzo, uno studente, Lucien, e non poté più farne a meno.
Decise che se finora aveva scelto certe vie non era il caso di sceglierle ancora, e che se finora l’amore era stato per lui passione e lussuria doveva essere con Lucien solo lirica e poesia. O almeno, ci provò: è così difficile separare l’amore dal sesso quando ad un certo punto, inevitabilmente, diventano la stessa cosa, e cioè quando ci si ama talmente tanto che non bastano più le belle parole, e tanti bei regali: bisogna passare ad un gesto più carnale. Fra Paul e Lucien questo accadde in segreto, se mai accadde, lontano dagli occhi di tutti, dove nessuno poteva vedere: un piccolo rituale per loro due, loro due soltanto, così per sempre.
Sarà, poi, che la lussuria è peccato o l’amore è sfortuna, ma Lucien si ammalò di tifo e dopo una lenta agonia lasciò il creato. Lo lasciò piangendo, e con lui pianse anche Paul, triste come non mai, ancora più solo di quando era nella pancia di sua madre, a prendere confidenza con cose che non aveva mai visto e di cui non sapeva nulla, ignorante come una pietra sul fondo del mare.
-Voi me l’avete dato, voi ora me l’avete ripreso; me l’avete dato, io ve lo rendo puro alla virtù e all’amore!
Gridava fra le lacrime sgridando Dio. Che poi magari non era vero, che era così puro e casto, ma forse Dio non lo sapeva, forse era troppo impegnato a guardare altrove -a volte può capitare- per accorgersi che Paul e Lucien tradivano la loro lingua, che Lucien stava morendo e Paul soffrendo per amore.
Tempo dopo -mesi dopo- Paul andò sulla tomba del suo amore ultimo e disperato. Era stanco, affaticato, rovinato, pieno di lividi e puzzolente d’alcool: aveva ripreso a bere, a drogarsi, a fumare, aveva ripreso a frequentare gentaglia e postacci, a fregarsene della vita e della sua salute precaria. Senza Lucien, senza Arthur, senza Mathilde e senza amore, era solo con una bottiglia, l’unica vera compagna della vita dell’uomo, l’unica che non lo inganna, o lo delude, o che se ne va: l’unico amore che un uomo può permettersi senza soffrire, perché quando giunge il momento di farlo si è troppo malati e troppo pieni di alcool per rendersene conto. La maggior parte delle volte si è già morti, anche se si è poeti.
E insomma Paul era una specie di cadavere fra i cadaveri, in piedi in quel cimitero. Sorrideva macabro come colui che sa la fine della storia e vorrebbe suggerirla: peccato fossero tutti morti, lì attorno.
Prese la bottiglia dalla tasca e ne bevve un sorso, lungo e leggero come le sue poesie. Pensò a chissà cosa, forse mentì a sé stesso quando disse:
-Amico, vengo a pregare con te.
Poi si girò, lento, come un albero nella bufera, disperato come un amore finito troppo presto: mentre se ne andava sentì il vento, e nel vento una voce, una voce che diceva:
-Tu comincia a pregare per te.
Paul si fermò, come colpito, sorpreso. Impossibile che qualcuno avesse parlato: era da solo, lì; impossibile fosse stato Lucien, o la sua tomba, che la pietra, si sa, non parla: forse era l’immaginazione, o Dio, o chissà cos’altro. Forse era l’amore, così strappato come le sue vesti e triste come i suoi occhi; forse la vita, che stava finendo come finiscono una bella storia e una bottiglia vuota.
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